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Dove mettiamo il male del cioccolato, che ruolo concediamo ai suoi detrattori che ne sostengono tutto il male possibile? Dalla ipercolesterolemia, al diabete, all’obesità, ai disturbi epatici. Potremmo sconfiggere questi tristi accusatori del nostro imputato, sostenendo comunque che è ben triste medicina quella nella quale l’uomo si deve astenere da tutti quei cibi che si desiderano in nome di presunti effetti nocivi. Ed in questo siamo sostenuti dall’autorevole parola di Ippocrate, che sosteneva essere “preferibile un cibo un po’ nocivo ma gradevole a un cibo indiscutibilmente sano ma sgradevole”.
La presunta nocività del cioccolato non risiede nella sostanza in sé, bensì nell’atteggiamento psichico dell’uomo moderno, che conduce a un uso, che può diventare malattia e che, a sua volta, genera altre malattie. Questo uomo moderno è oggi caratterizzato da un’adolescenza interminabile e infinita e, per questo, come un eterno adolescente è terrorizzato dal vuoto e dalla noia.
E sempre più incapace di gustare il piacere preliminare, quello cioè associato alla tensione crescente relativa alla prospettiva della futura gratificazione. È orientato invece solo al piacere terminale, quello associato all’effetto di scarica legato al consumo: deve quindi esaudire compulsivamente ogni desiderio il più rapidamente possibile e nella quantità massima possibile. Siamo una società di malati bipolari, che cercano di allontanare la fase melanconica vivendo un perenne stato maniacale, che ci conduce a fare tutto in fretta, affannosamente, alla ricerca inesauribile di nuove sensazioni.
Per rispondere alle esigenze di questo uomo moderno perennemente di corsa, incapace di trovare ritmi più sincronici con quelli della natura, il mondo economico si è adeguato confezionando un’offerta appropriata. Per l’uomo amerindo il cioccolato era rito, sacralità e segno di distinzione di casta; per i conquistatori spagnoli dolce, ritemprante riposo dalle fatiche guerresche; per i re e i nobili europei piacere ma anche squisita medicina oltre che, ancora, segno di riconoscimento di gruppi sociali che facevano della lentezza della degustazione segno di distinzione.
Per noi, invece, diventa un qualcosa che deve essere di facile reperibilità, alla portata di tutte le tasche e rapido da consumarsi. Il cioccolato esce così dai templi maya e aztechi, dalle corti sfarzose, dalle botteghe dei raffinati pasticcieri fiamminghi, francesi, piemontesi o toscani per giungere sugli scaffali dei supermercati. Cibarsi di questa sostanza passa quindi da piacere lento e raffinato – più degustazione che nutrizione – a complemento finale dei pasti o alimento consumato voracemente per riempire i vuoti ansiosi di affetti.